saluto dell’autore

(“Testi ottenuti dalla trascrizione di interventi svolti durante la personale, che non hanno avuto una seconda revisione da parte degli autori.” )

Nella storia del linguaggio pittorico, come la conosciamo noi, dal metafisico della tarda antichità al recupero della “realtà” come mezzo espressivo da Giotto alla modernità, si può parlare di evoluzione, ma anche di singoli eventi indipendenti fra loro. Dalle astrazioni individualizzate epocali alle astrazioni personalizzate degli artisti rinascimentali e moderni, siamo giunti alla contemporanea identificazione tra arte e vita. (Rrose Sélavy – rose c’est la vie) Il fare arte, hic et nunc, acquista una componente passiva di accettazione: inventare – invenire – trovare – fare propria. L’artista si conforma alle trasformazioni del contingente occasionale e vive una verità che è sua ma anche aliena, dove prima era nell’opera pensata, compiuta, oggettiva. L’artista diventa mito nella eccentricità, follia, banalità. L’arte e la vita, sempre in divenire, sono in rapporto di uno a uno, ovvero sono la stessa cosa, come i manifesti strappati in strada dai passanti. Ma, se pur sempre di arte si tratta, si deve parlare di astrazione e bisogna coniare un nuovo aggettivo accompagnatorio definente: parlerei di “astrazione fluente”.

In campo San Maurizio ho vissuto i tempi del ’68; coabitavo con Roland Houzel, autentico architetto purtroppo deceduto troppo presto nel compimento della sua missione, in un piccolo appartamento all’ultimo piano, alla fine della calle del Dose Da Ponte, in una corte pavimentata con mattoni all’antica, più bassa rispetto alla riva sul Canal Grande, accessibile da un basso sottoportego chiamato del Santissimo per la rappresentazione scolpita in pietra, posta sopra una porta, della “Presenza Reale” nel calice sorretto da due angeli e l’ostia con Cristo crocifisso. Un’abitazione di quattro minuscole stanze e una terrazzina con arredi di recupero innovativi e di accertata estrosità.

Amici e compagni di strada diurni e notturni, il plotone anti-biennale del professor Lapassade e le forze dell’ordine pubblico, gli artisti di passaggio in fuga da oltre cortina. La presenza a scadenze fisse di Habram Habbah con il sacco pieno di splendide piccole sculture da vendere; in questi giorni, una sua retrospettiva al museo di Tel Aviv. La presenza extravagante di Raimond Hains, impegnato con il premio Marzotto (la locuzione), con la galleria del Leone (il cicisbeo della critica e l’asinello vestito con la pelle del leone), con la galleria del Cavallino (Saffa e Seita), con la galleria dell’Elefante (le passerelle dell’acqua alta e la Biennale scoppiata); quest’ultima presentata nel padiglione Italia dalla Biennale della scorsa edizione. Ma è nel segno della “Presenza Reale” che si fonderà tutto il suo lavoro successivo; immerso nelle pluralità di senso, infaticabile navigatore, inesauribile ricercatore e argonauta, per togliere casualità a un mondo dibattuto inconsciamente fra Scilla e Cariddi, per illuminare stringenti emergenti verità.

Un’altra personalità artistica gravitava intorno al luogo e al suo essoterico logos: Virgilio Guidi. Cosmiche dilatazioni, gravide di visioni e di intuizioni folgoranti, attraverso gigantesche ferite del cielo, si proiettavano nel mondo; poco più in là, metafisici incontri si dilungavano nelle ore del tramonto. Noi, completamente indifferenti, resi ottusi da logiche di pensiero allora in voga, franti in una società smarrita.

Ora io vedo dissolversi nei colori dei cieli antichi (di Guidi) i colori che si formano in noi dai nostri conflitti; in questi cieli vedo l’aprirsi di un passaggio, il gettarsi di un ponte verso una intuibile verità, verso una trasformazione sostanziale, verso la luce, “Presenza Reale” che è la coperta misericordiosa stesa sulle piaghe del mondo.